giovedì 22 ottobre 2015

Meteorismo… ma perché????

I gas che si formano nel nostro intestino sono fonte di disagio e, cosa ben più importante, arrivano a condizionare le scelte alimentari inducendoci a evitare gli alimenti che, crediamo, possono causarne la formazione. Tali scelte alimentari però possono rivelarsi in contrasto con le Linee Guida dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN): più legumi e tanta frutta e verdura, e cereali integrali per raggiungere la quota minima di 25 grammi di fibra al giorno raccomandata da EFSA (Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare) e OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Gli alimenti naturalmente ricchi di fibra dovrebbero caratterizzare quotidianamente la nostra alimentazione perché essa sia preventiva di alcune importanti malattie cronico-degenerative, del diabete di tipo 2, delle malattie cardiovascolari, e protettiva per esempio nei confronti di alcune malattie dell’intestino. Peccato che i vegetali siano proprio una delle fonti di quelle molecole che possono determinare la formazione dei gas e quindi la necessità di… espellerli. Quando e perché si formano gas nel nostro intestino lo illustra in modo efficace il podcast video di George Zaidan del MIT (Massachusetts Institute of Technology).




Come si producono i gas nel nostro intestino, e perché i gas espulsi hanno odori diversi? La spiegazione è nella fermentazione. Il nostro intestino funziona come un fermentatore in cui si produce, per esempio, la birra. All’interno del fermentatore per la birra, dei funghi (ossia i lieviti), trasformano acqua e materiale vegetale morto in birra.

Qualche chiarimento. Per ottenere energia, noi mangiamo e introduciamo ossigeno. Questo processo che ha luogo nelle nostre cellule si chiama respirazione. Anche il lievito assume energia attraverso il cibo ma lo fa in assenza di ossigeno e questo processo si chiama fermentazione. Una differenza sostanziale tra respirazione e fermentazione sono i sottoprodotti. Noi, attraverso la respirazione, produciamo anidride carbonica e acqua, mentre i lieviti con la fermentazione fanno anidride carbonica e alcol.

Allora, cosa c’entra la fermentazione con noi? La risposta è nella simbiosi: la comunità di batteri (il microbiota) che vive dentro di noi sa fare la fermentazione e lavora incessantemente nel fermentatore portatile che possediamo, il nostro intestino. Al suo interno ci sono dieci volte più batteri che cellule nel nostro intero corpo. Noi, come ospiti di questa ingente popolazione di batteri, siamo anche portatori di biodiversità, poiché i batteri che vivono nel nostro intestino appartengono a centinaia di specie differenti, capaci ognuna di fare, “biochimicamente” parlando, cose differenti. Il nostro intestino fornisce ai batteri un ambiente protetto, a temperatura constante, un luogo ideale per vivere e riprodursi, dove c’è ampia disponibilità di cibo.

Veniamo dunque alla relazione tra alimentazione e produzione di gas. Per quanto efficiente nel digerire il cibo consumato, il nostro corpo non può demolire e assimilare composti chimici come cellulosa, pectina, alcuni tipi di amido e di zuccheri complessi. I nostri batteri intestinali invece ne sono capaci. Così, mentre i lieviti della birra fermentano lo zucchero, i batteri nel nostro intestino fermentano tutto quello che noi non siamo in grado di digerire. I principali sottoprodotti della fermentazione attuata dai batteri intestinali sono molecole chiamate acidi grassi a catena corta (e non l’alcol, come nel caso dei lieviti della birra) che noi possiamo utilizzare: meravigliosamente, le squadre di batteri intestinali trasformano molecole che non potevamo digerire in qualcosa che invece siamo capaci di assimilare e trasformare in energia. Significa che senza quei batteri quella quota di energia andrebbe perduta.

Fermenta questo, fermenta quello… tra i sottoprodotti si formano anche tanti gas, e non solo il biossido di carbonio che è inodore, ma anche gas dagli odori caratteristici come l’acido solfidrico dal caratteristico odore di uova marce, il solfuro di metile con odore di cavolo, o anche il metantiolo dall’odore di cavolo marcio. Tutto dipende da quello che ingeriamo. In generale, mangiando cibi contenenti maggiori quantità di composti indigeribili, i vegetali appunto, produciamo più gas. Ma ognuno di noi ha la sua unica combinazione di batteri intestinali per specie e quantità (tale unicità è comparabile solo con quella delle impronte digitali), ed essendo ogni tipo di microrganismo capace di metabolizzare in modo diverso la varietà di molecole indigerite nell’intestino, è impossibile prevedere quali gas saranno prodotti. Dice George Zaidan: “Come in una scatola di cioccolatini assortiti, il meteorismo è una continua fonte di sorprese”!

Gas a parte, gli effetti benèfici di un microbiota bilanciato e sano sono:

  • ·      contributo alla digestione
  • ·      produzione di alcune vitamine
  • ·      protezione della mucosa intestinale
  • ·      funzione immunitaria
Con un’alimentazione corretta sfamiamo l’assortimento più favorevole di microrganismi perché essi svolgano queste funzioni. In assenza di un microbiota ben assortito siamo, per esempio, più vulnerabili alle infezioni da parte di batteri “cattivi”. Quando la dieta non è sufficiente a tenere sotto controllo questi batteri “cattivi”, come ad esempio il Clostridium difficile, la soluzione potrebbe essere un trapianto, quasi un trasloco! La combinazione favorevole di microrganismi di un individuo può essere trasferita nell’intestino di un’altra persona che ne sia priva: si chiama trapianto di feci. Per ora una terapia utilizzata solo in ambito di ricerca, il trapianto di feci si è rivelato efficace per risolvere infezioni da Clostridium difficile contro cui gli antibiotici erano inefficaci. A causa di questo microrganismo, negli USA ogni anno muoiono 14.000 persone. Per comprendere il valore economico di tale trattamento se diventasse di routine, si pensi che per combattere l’infezione da Clostridium difficile, particolarmente pericolosa per gli anziani e contratta di solito durante un ricovero in ospedale, in Europa si stima si spendano circa 3 miliardi di euro ogni anno (http://www.fadoi.org/allegato_news/246_1_FADOI_Clostridium_Editoriali_Epidemiologia.pdf)

Per incentivare e studiare il trapianto di feci, presso il MIT esiste una “banca della cacca” senza scopi di lucro (il progetto si chiama Open Biome) che raccoglie feci da donatori sani selezionati, e ne spedisce ai medici estratti pieni di batteri che saranno trapiantati in pazienti privi della combinazione più salutare di microrganismi intestinali.

Tornando all’alimentazione e al tema del podcast presentato qui, è importante ricordare che le cause della formazione di gas intestinali sono molteplici, e che è scorretto pensare che ci si debba astenere dai cibi ad alto contenuto di fibre per prevenire il gonfiore. Infatti, tra i cibi sconsigliati per chi soffre di meteorismo ce ne sono tanti che di fibre non ne contengono affatto, come per esempio gli insaccati, certi tipi di formaggi e i dolci.


In coda a questo post inserisco un esempio di cosa potremmo mangiare in un giorno per avvicinarci ai 25 grammi di fibra, scegliendo verdura e frutta di stagione, e considerando l’indicazione (LARN 2014) per porzione di 200 grammi di ortaggi (intesi crudi al netto degli scarti, oppure cotti) o di 80 grammi di insalata:

  • Pane integrale con miele e/o marmellata 100 g, fibra c. 5,7 grammi
  • Broccolo 200 g, fibra c. 6,2 grammi
  • Insalata (verdura a foglia cruda) 80 g, fibra c. 1,7 grammi
  • Pasta di semola 80 g, fibra c. 2,1 grammi
  • Pasta integrale 80 g, fibra c. 9,2 grammi
  • Mela con buccia fibra c. 2,6 grammi
  • Pera sbucciata fibra c. 3,8 grammi

Fibra totale con pasta bianca: 22,1 grammi; fibra totale con pasta integrale: 29,2 grammi; con 150 g di lenticchie, che da sole apportano c. 12 grammi di fibre, sorpassiamo di parecchie unità la quantità raccomandata. Le indicazioni che si possono trarre da questo esempio sono chiare: consumando più volte a settimana prodotti confezionati con farina di frumento integrale e legumi, raggiungiamo facilmente l’obiettivo indicato dai ricercatori della nutrizione. Per quanto riguarda il meteorismo, nei prossimi post torneremo su questo tema in difesa delle fibre e del loro contributo alla nostra buona salute.

venerdì 9 ottobre 2015

In cammino verso un mondo sempre più … dolce. La scomparsa del sapore amaro dai nostri piatti.


Se in una parte del mondo ci si attiva per soccorrere e salvare “la dolcezza”, un miele selvatico rarissimo, nei paesi sviluppati marciamo, spinti dall’industria, verso cibi sempre più dolci e sapori meno bruschi.  Di dolcezza qui da noi ne abbiamo in abbondanza e stiamo invece perdendo il gusto amaro e le molecole che lo determinano, e con esse i loro benèfici effetti sulla salute. Dan Saladino, BBC4, ne parla in un episodio di “Food Programme” conversando con la chef e scrittrice Jennifer McLagan; con la reporter scientifica Marta Zaraska; con l’esperto di piante selvatiche Miles Irving; con la scrittrice e insegnante di cucina Monisha Bharadwaj; e con il fisico Peter Barham. Qui riassumo il podcast, che è ascoltabile su http://www.bbc.co.uk/programmes/b06f4z3k#play.

Frutta e ortaggi sono oggi ripensati dall’industria per essere meno amari. I broccoli, per esempio, devono il loro sapore amaro ai glucosinolati, perciò se ne selezionano varietà che ne contengono meno. Un altro esempio è la naringina, che conferisce agli agrumi e in particolare al pompelmo il gusto caratteristico, e viene eliminata dal succo attraverso un trattamento con resine che possono sottrarne più del settanta per cento. Tuttavia, glucosinolati e naringina sono alcune di quelle sostanze, prodotti secondari delle piante, che dovremmo consumare abitualmente perché hanno effetti positivi sulla nostra salute.

Quindi, se abbiamo nelle orecchie il mantra “cinque porzioni di frutta e verdura al giorno”, l’assenza di queste molecole per intrusione dell’industria alimentare non ci fa un gran favore. Anche se attendiamo conferme scientifiche definitive, eliminare i glucosinolati significa privarsi di sostanze con potenziale azione detossificante, antiossidante, anticancerogena, antinfiammatoria e antibatterica (LARN 2014, Livelli di Assunzione di Riferimento dei Nutrienti pubblicati dalla Società Italiana di Nutrizione). E l’altra molecola sotto attacco? La naringina è un flavonoide il cui apporto con la dieta è stato messo in relazione con una riduzione significativa del rischio di alcune malattie cronico-degenerative (LARN 2014). Oltre alla nota stimolazione della secrezione gastrica, l’amaro ha dunque altri effetti benefici… Allora, custodiamo il sapore amaro!

Suona come uno spot pubblicitario, e uno degli esempi portati da Dan Saladino di come la cultura gastronomica conservi e desideri il sapore amaro è proprio il Fernet Branca, oggi molto popolare negli USA e in Argentina. I consumi di Fernet Branca non saranno in Italia ai livelli di quelli americani, tuttavia la chef Jennifer McLagan porta ad esempio la cultura culinaria italiana, in cui compaiono ingredienti amari come radicchi e cicorie e, aggiungiamo noi, carciofi e cardi. Il valore dell’ingrediente amaro, secondo questa chef australo-canadese, è il contributo che danno nel creare sapori più complessi e ricchi. L’invito è a sperimentarli, per esempio nelle insalate o utilizzando cioccolato ad alta percentuale di cacao.

La mimica facciale di qualcuno che ha appena ingerito un boccone molto amaro illustra la naturale avversione che l’essere umano ha sviluppato per difendersi da sostanze tossiche, come gli alcaloidi. Tuttavia non tutto ciò che è amaro è tossico, e la propensione al rischio (e, in questo caso, all’assaggio di specie ignote) tipica della specie umana ha portato a includere nella dieta alimenti amari ma innocui e, quindi, ha permesso di ampliare la varietà di alimenti disponibili per il sostentamento: un vero vantaggio dal punto di vista evolutivo. La curiosità ha portato l’essere umano a includere tra gli ingredienti culinari il frutto di Momordica charantia, il più amaro tra i vegetali edibili oggi noti (http://www.diabetes.co.uk/natural-therapies/bitter-melon.html). In India, la cui gastronomia è generosa di ingredienti amari, lo chiamano karela e per la medicina ayurvedica non deve mancare nel piatto del diabetico di tipo 2 . Sul suo potere ipoglicemizzante sta investigando anche la ricerca medica “occidentale”, come mostrano le pubblicazioni sul Journal of Ethnopharmacology (2011), su Chemistry and Biology (2008), sul Journal of Clinical Epidemiology (2007), e sul British Journal of Nutrition (2009).

Il sapore dolce ci piace subito perché è così, diciamo, “facile”, ma è associato a effetti negativi sulla salute; quindi conviene rivalutare l’amaro e tenerne presenti gli effetti benèfici. E’ il suggerimento di Miles Irving, fondatore dell’azienda Forager Ltd. Irving è un “wild food expert”, e raccoglie e vende piante selvatiche mangerecce, funghi e alghe ad alcuni tra i migliori ristoranti di Londra, ispirato all’inizio della sua attività imprenditoriale dall’obiettivo di promuovere il cibo selvatico e i suoi sapori.

Se la tendenza è far scomparire l’amaro dal mercato, questa è una buona ragione per andare a cercarlo e per imparare ad apprezzarlo. Non dobbiamo perdere un sapore, ci ritroveremmo nel futuro con alimenti sempre meno diversi tra loro anche per il gusto, e sempre meno sani.