lunedì 16 dicembre 2013

Una manciata di noci al giorno: effetti su salute e longevità


Podcast ascoltabile e scaricabile da


Parliamo di un comportamento alimentare virtuoso, che fa bene alla salute. E questa volta ci concediamo qualcosa di buono da mangiare.

E’ noto da tempo che consumare frutta in guscio (“noci”) fa bene. Ora sono disponibili i risultati di un vastissimo studio statunitense che ha osservato per trent’anni un gruppo di 120000 persone registrando di ognuna causa della morte e frequenza di consumo di frutta in guscio. Lo studio ha scoperto che le persone che consumavano regolarmente noci avevano meno probabilità di morire durante i trent’anni di studio. Claudia Hammond di Health Check (BBC World Service) intervista l’epidemiologa Ying Bao del Brigham and Women’s Hospital (Harvard Medical School) che insieme ai colleghi ha pubblicato i risultati sul New England Journal of Medicine.

In questo studio, le persone che mangiano più frutta in guscio hanno meno probabilità di morire nei trent’anni successivi di controllo. In particolare, si è visto che tra le persone che consumano quotidianamente noci la mortalità totale si riduce del 20%. Le persone che consumano noci cinque o più volte la settimana hanno un rischio ridotto di malattie cardiache e di cancro.

Questi effetti sono ingenti, per esempio se confrontati con quelli dell’astensione dal fumo di sigaretta, suggerisce Claudia Hammond. Sembra che l’abitudine di consumare frutta in guscio abbia proprio un grosso impatto. Ying Bao commenta che la riduzione nella mortalità totale è talmente grande da essere comparabile con i benefici derivanti dal consumo di frutta e verdura e dall’attività fisica

Lo studio ha consentito di osservare che le persone che mangiano più noci hanno effettivamente uno stile di vita sano: mangiano più frutta e verdura, fanno più esercizio e di solito non fumano. Per discriminare tra queste e altre variabili (compresi l’indice di massa corporea e la storia familiare per quel che riguarda il diabete e le malattie cardiache) sono stati utilizzati raffinati strumenti statistici, e i ricercatori sono sicuri che l’associazione inversa [tra consumo di noci e mortalità] riscontrata rispecchia un reale beneficio.

Non è chiaro tuttavia quali sono le proprietà nutrizionali della frutta in guscio responsabili degli effetti positivi sulla salute. Si sa che la frutta in guscio contiene molte sostanze nutritive, come minerali, vitamine, acidi grassi insaturi, che studi precedenti hanno dimostrato avere effetti positivi sulla salute e sulla longevità: possono essere questi nutrienti e anche le sostanze bioattive a essere responsabili dei vantaggi.

Lo studio non ha distinto tra tipi di noci. Ying Bao suggerisce che, poiché la composizione nutrizionale della frutta in guscio è simile, probabilmente i benefici sono simili per tutti i tipi di noci. Nella categoria possiamo includere anche le arachidi, che sono legumi, ma hanno un profilo nutrizionale molto simile a quello delle noci d’albero.

“Ma le noci non fanno ingrassare?” In contrasto con l’idea diffusa che, a causa del loro alto contenuto in grassi, le noci fanno ingrassare, lo studio di Ying Bao e colleghi mostra che le persone che consumano abitualmente noci sono più magre. Questo risultato conferma la relazione inversa tra indice di massa corporea e consumo di frutta in guscio osservata in precedenti vasti studi statunitensi ed europei.

In conclusione, la raccomandazione per ottenere i vantaggi nel lungo periodo, in aggiunta a quella di seguire le linee guida per una sana alimentazione e uno stile di vita attivo, è quella di consumare una “manciata” di noci al giorno. Una manciata è la quantità ragionevole per attenersi alla regola di consumare qualunque cosa con moderazione, perché, in particolare, il consumo eccessivo di noci può causare un aumento di peso.

Guardate il video
http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1307352

domenica 4 agosto 2013

Obesità microbiota intestinale e cancro. Uno studio sui topi evidenzia il ruolo dei microorganismi.



Rispondendo alle domande di Linda Poon, David Grimm racconta i risultati di Eiji Hara e colleghi del Cancer Institute presso la Japanese Foundation for Cancer Research di Tokio.
L: Qual è il legame tra cancro e microbiota intestinale?

D: Già è noto il legame tra i batteri che vivono nel nostro intestino e malattie infiammatorie intestinali, allergie e malattie cardiache. Quindi non è sorprendente che un legame tra microbiota e cancro esista. La questione centrale di questo studio è dare una spiegazione alla maggiore probabilità che hanno gli individui più obesi di ammalarsi di certi tipi di cancro. 

L: Come hanno fatto i ricercatori a studiare questa associazione?

D: I ricercatori hanno messo a confronto topi snelli nutriti con una dieta normale con topi obesi cui era stata somministrata una dieta fortemente ipercalorica. Con lo scopo di indurre l’insorgenza del cancro, i topi di entrambi i gruppi erano stati esposti a una sostanza carcinogenica immediatamente dopo la nascita. Alla fine dello studio si è trovato che, in modo simile a quello che si osserva negli esseri umani, solo il 5% dei topi magri si era ammalato di cancro nel corso della vita, mentre tutti i topi obesi si erano ammalati. Differenze tra i due gruppi di topi sono state evidenziate nella composizione del microbiota intestinale. Nei topi obesi erano più alti i livelli di acido diossicolico (DCA), un composto prodotto da certi batteri che degradano gli acidi biliari sintetizzati dal fegato. Negli esseri umani DCA è noto per gli effetti cancerogeni dovuti alla sua capacità di alterare il DNA. Perciò è molto interessante che siano stati trovati alti livelli di questo composto nei topi obesi.

 L: E dunque qual è il ruolo della dieta nello sviluppo del cancro?

D: Una delle domande di partenza dello studio era proprio: “la causa è la dieta?” Per affrontare questo punto sono stati utilizzati topi geneticamente ingegnerizzati per diventare obesi a prescindere dal tipo di dieta. Anche in questi topi l’incidenza di cancro era maggiore e anch’essi presentavano livelli più alti di DCA. Questo suggerisce che siano proprio i batteri intestinali a giocare un ruolo nell’insorgenza del cancro piuttosto che solo l’alimentazione.

L: Che cosa significa questo risultato per il futuro della prevenzione del cancro negli esseri umani?

D: Ci suggerisce che per prevenire certe forme di cancro ci si può concentrare sul microbiota intestinale. Infatti in questo studio, nei topi trattati con un antibiotico l’incidenza del cancro diminuiva, e anche la riduzione dei livelli di DCA abbassava il rischio di cancro.

domenica 7 aprile 2013

Un microchip per ridurre l’obesità: inizia la sperimentazione sugli animali con fondi del European Research Council.


Neil Bowdler, BBC, intervista il Prof. Chris Toumazou, ingegnere biomedico, e il Prof. Sir Stephen Bloom, capo dell’Unità di Diabetologia Endocrinologia e Metabolismo dell’Imperial College London.


Il microchip può ricreare i segnali neurali responsabili del controllo dell’appetito. Il prof. Toumazou spiega che funziona grazie a uno strato chimico in grado di diagnosticare le “firme” chimiche che fluiscono lungo il nervo vago per monitorare l’appetito. Il nervo vago mette in relazione il cervello con il sistema metabolico, ed è attraverso questo nervo che si possono osservare le varie firme chimiche che vogliamo monitorare. Il monitoraggio di questi segnali ci permette poi di stimolare il cervello a contrastare ciò che stiamo tentando di monitorare. Un esempio lo suggerisce l’intervistatore: il chip capta il segnale chimico che dice “dammi da mangiare”; una volta riconosciuta questa informazione, lungo il nervo sensoriale viene inviato uno stimolo elettrico che dice “non darmi da mangiare”. Si tratterebbe quindi di un modo per controllare l’appetito attraverso la rigenerazione del processo di controllo, conclude Toumazou. Il prof. Bloom, che si occupa della parte medica dello studio, spiega che la più importante applicazione del microchip è tentare di prevenire l’epidemia di obesità attesa per i prossimi anni e le morti causate dalle complicazioni associate a questa condizione. Il microchip rappresenterà un’alternativa alla chirurgia, un trattamento quest’ultimo che pare assurdo pensare di applicare a metà della popolazione e che,inoltre, non sempre è coronato da successo. Il microchip potrà essere utilizzato in maniera diffusa, allo stesso modo con cui si applicano gli apparecchi acustici, e il suo effetto sarà la riduzione dell’appetito conseguita in modo naturale. Al cervello arriverà lo stesso segnale che arriverebbe naturalmente dall’intestino dopo un pasto. Questo segnale dice “non mangiare più, l’intestino è già pieno, non hai più necessità di mangiare”. Al contrario con, per esempio, il bendaggio gastrico il paziente continua a sentire la necessità di mangiare.

I test svolti sino a oggi hanno dimostrato che è possibile monitorare le reazioni chimiche che fluiscono lungo il nervo vago. Entro i prossimi tre anni, il microchip sarà testato sugli animali obesi e poi sugli esseri umani. Perché il trattamento diventi rutinario occorrerà attendere cinque anni. 

Ci si può chiedere se la prevenzione dell’obesità non passi più per l’educazione a un’alimentazione e a uno stile di vita sani che per un dispositivo elettronico che induce il senso di sazietà.

lunedì 25 febbraio 2013

Brevi messaggi su cibo e nutrizione da RADIO3 SCIENZA nella rubrìca "BUONO A SAPERSI"

http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/articoli/ContentItem-158a80b4-db72-4047-b10c-2a57ef0f11c7.html

nelle due puntate passate si è parlato di etichette del cibo biologico e delle proprietà del latte

Michela Sandias

giovedì 21 febbraio 2013

Il Prof. Claudio Franceschi sulla longevità. Non solo i nostri geni, ma anche la dieta ["la dieta è tutto"] e l'esercizio fisico hanno un ruolo.

 http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/PublishingBlock-fa13fa37-1286-427b-a49d-015c7c38ee06-podcast.html?refresh_ce

Parole chiave: longevità invecchiamento centenari benessere felicità inflammaging

Michela Sandias

martedì 5 febbraio 2013

Pesce e Integratori di Olio di Pesce


Il Dr Rajiv Chowdury, intervistato da Wim Weber, è primo autore di una metanalisi pubblicata sul British Medical Journal in cui si parla di consumo di pesce, acidi grassi omega-3 a catena lunga e rischio cerebrovascolare.


La relazione tra pesce, acidi grassi omega-3 a catena lunga e malattie delle coronarie è nota. Le attuali linee guida raccomandano di consumare due porzioni a settimana di pesce, preferibilmente pesce ricco di grassi. Invece non è ancora chiara l’evidenza a supporto di un beneficio simile rispetto all’ictus. Questa nuova metanalisi, spiega Chowdury, prende in considerazione proprio gli studi che mettono in relazione rischio cerebrovascolare, consumo di pesce e acidi grassi omega-3.

Lo studio ha evidenziato una differenza considerevole tra il consumo di pesce bianco e il consumo di pesce ricco di grassi. Per pesce bianco di solito si intende merluzzo, asinello/eglefino, merlano ecc. In questi pesci gli oli si trovano tipicamente nel fegato. Invece, nei pesci grassi gli oli si trovano nei tessuti e nella cavità addominale e costituiscono fino al 30% del totale. La metanalisi di Chowdury e colleghi ha evidenziato una relazione inversa [tra consumo e malattia cerebrovascolare] nel caso del pesce grasso. Tale relazione inversa invece non è stata evidenziata per il pesce bianco. Questa differenza, spiega Chowdury, potrebbe essere dovuta al differente contenuto e localizzazione dei grassi nei due tipi di pesce. Tuttavia, alternativamente, essa potrebbe essere spiegata dal fatto che la maggior parte degli studi con il pesce bianco sono stati condotti nel Regno Unito e in Svezia, e che il pesce bianco consumato per questi studi in quei paesi era stato cucinato con l’uso di pastella oppure fritto in abbondante olio. Quindi, l’assenza di una relazione inversa nel caso del pesce bianco potrebbe essere dovuta al metodo di cottura. Infatti, la presenza, dovuta al metodo di cottura, di grassi dannosi quali gli acidi grassi trans, potrebbe “diluire” gli effetti protettivi che possiamo aspettarci dal consumo di acidi grassi omega-3. Perciò la mancanza di una relazione inversa nel caso del pesce bianco potrebbe non avere nulla a che fare con la reale quantità di acidi grassi omega-3 contenuta nei due tipi di pesce. Certamente, più dati sono necessari per chiarire questa particolare associazione. Quello su cui concordano autore e intervistatore è che i risultati degli studi nutrizionali non si prestano facilmente a essere estesi da un paese all’altro, e che il luogo dove si svolge la ricerca rappresenta uno dei limiti di questo tipo di indagini.
 
Per quel che riguarda la quantificazione dell’effetto benefico, Weber chiede quanto pesce si dovrebbe consumare in una settimana per avere qualche vantaggio o per ridurre il rischio di ictus. La metanalisi di Chowdury e colleghi dimostra che da due a quattro porzioni di pesce a settimana, rispetto a una o meno di una porzione a settimana, sono associate a una riduzione del 6% del rischio relativo di tutti i tipi di futuri eventi patologici cerebrovascolari. Il rischio di ictus futuri si riduce di circa il 12% quando si consumano cinque o più porzioni a settimana. Inoltre, la ricerca dimostra che per ogni due porzioni di pesce, c’è una riduzione del 4% del rischio di ictus. Tutti questi risultati sono statisticamente significativi. Una riduzione del rischio del 6% può sembrare modesta. Tuttavia, l’autore fa notare che solo nel Regno Unito ogni anno 150000 persone sono colpite da ictus. Quindi, guardando alla popolazione, questa riduzione dal 4% al 6% è piuttosto rilevante.

In netto contrasto con quanto dimostrato per il pesce sono i dati riguardanti gli integratori di olio di pesce. Infatti, non è stato notato un effetto consistente degli acidi grassi omega-3 per quel che riguarda la riduzione dell’ictus. Questo dato non è facile da interpretare, dice Chowdury, poiché le sperimentazioni sugli effetti degli integratori di olio di pesce considerati in questa metanalisi sono state condotte principalmente su persone con una storia precedente di malattia, oppure su persone ad alto rischio di malattia cardiovascolare. Per un confronto valido sono necessarie sperimentazioni sulla popolazione sana

 Nel complesso l’idea che emerge da questa metanalisi è che oltre agli acidi grassi omega-3 il pesce contiene un pacchetto di nutrienti salutari la cui combinazione o la cui reciproca influenza può avere effetti benefici sulla salute cardiovascolare e cerebrovascolare. Allora, passando all’applicabilità dei risultati, per migliorare il profilo di rischio Chowdury propende per consigliare di consumare un po’ più di pesce piuttosto che prescrivere integratori di acidi grassi omega-3.

In tema di malattie cardiovascolari e loro prevenzione è utile segnalare gli ultimi dati dell'Agenzia Italiana del Farmaco su quali sono le medicine più utilizzate in Italia. Lo scorso primo febbraio il Prof. Luca Pani, direttore generale dell'Agenzia, raccontava al GR3 che le medicine più acquistate sono i farmaci per il sistema cardiovascolare.