domenica 16 novembre 2014

UN SOLO OROLOGIO PER TE E I TUOI MICROBI di Lisa D. Chong

Questa volta non un podcast audio o video ma la traduzione del riassunto che Lisa D. Chong fa dei risultati di Thaiss e colleghi apparsi su Cell.

"Lo sconvolgimento dei nostri ritmi circadiani aumenta il rischio di sviluppare il diabete, il cancro e le malattie cardiovascolari. Gli scienziati però non riescono a spiegare del tutto questo fenomeno. Thaiss e colleghi ora riferiscono su Cell che le condizioni che causano il jet lag modificano la composizione e l'attività dei microbi intestinali nei topi, e ciò può portare a sviluppare malattie metaboliche. La composizione del microbiota intestinale non fluttuava più nel corso della giornata in topi con i ritmi circadiani stravolti, ma la somministrazione di cibo ad un ritmo normale o il trapianto di microbi intestinali da topi normali ripristinavano le oscillazioni. Topi normali che avevano ricevuto trapianti di microbi intestinali da persone con jet lag o da topi che avevano subito una modificazione nel ritmo giorno-notte aumentavano di peso e sviluppavano i sintomi della malattia metabolica."

Science 14 November 2014823 [DOI:10.1126/science.346.6211.823-a]

domenica 26 ottobre 2014

Obesità infantile e antibiotici: nel microbioma intestinale forse una spiegazione



La discussione tra Tim Spector e Nicholas Finer, mediata dalle domande di Ian Sample (Guardian) e Nicola Davis (Observer), scaturisce dall’uscita su JAMA Pediatrics di un articolo che conferma la relazione tra obesità nei bambini e utilizzo di antibiotici nei primi due anni di vita: bambini che hanno assunto antibiotici per quattro o più volte durante i primi due anni hanno un rischio maggiore del 10% di diventare obesi all’età di cinque anni. La discussione offre inoltre ai due interlocutori l’occasione per raccontare qualcosa sul microbioma intestinale e i suoi possibili effetti sulla nostra salute.


Nicholas Finer, endocrinologo e esperto di obesità di University College London Hospitals commenta che la relazione obesità-antibiotici potrebbe contribuire a spiegare la velocità con cui si è diffusa l’attuale epidemia di obesità. Il fattore “stile di vita” (diminuzione dell’attività fisica, aumento dell’introito calorico), difficilmente può spiegare la rapidità della diffusione della condizione. I risultati di studi come questo richiamano l’attenzione su un altro possibile fattore ambientale, il microbioma intestinale e i suoi effetti sul bilancio energetico e sul metabolismo energetico. Nel complesso si può pensare a un meccanismo per cui i batteri alterano il metabolismo energetico, e aumentano l’efficienza con cui utilizziamo il cibo che mangiamo come fonte di energia.

Uno dei messaggi da portare a casa è che certamente occorre essere prudenti nell’uso di antibiotici. Secondo il professor Finer, al momento la cosa più giusta da fare se abbiamo il caso di un bambino che deve assumere molti cicli di antibiotici a causa di infezioni ricorrenti (per esempio, di polmonite), è monitorare successivamente quel bambino relativamente al rischio di sviluppare l’obesità.


Tim Spector, professore di epidemiologia genetica al King's College di Londra e direttore del TwinsUK Registry trova in questo contributo la conferma dell’ipotesi avanzata nel 2009 da Martin Blaser (autore del libro “Missing Microbes”, i “Microbi scomparsi”) per cui negli USA è possibile, stato per stato, correlare la prescrizione di antibiotici con i tassi di obesità. Ed è possibile seguire le modificazioni nel numero di obesi in parallelo con l’uso di antibiotici. La stessa correlazione è stata osservata anche a Bristol: assunzione di antibiotici e aumentato rischio di obesità infantile.


L’assunzione di antibiotici è qualcosa di totalmente nuovo nella storia della nostra evoluzione, ci fa notare Spector. I primi tre anni della nostra vita servono per costituire il nostro microbioma da zero fino alla situazione adulta in cui dovremmo avere il microbioma perfetto che contribuisce alla nostra immunità. Privi del nostro microbioma intestinale moriremmo, poiché quei microbi sono essenziali per contrastare le infezioni, per produrre alcune vitamine, e condizionano il modo in cui digeriamo quello che mangiamo. Negli ultimi quaranta e cinquant’anni abbiamo somministrato di routine antibiotici senza pensare ai loro possibili effetti collaterali. Per il nostro microbioma, che si è evoluto con noi per milioni di anni, i trattamenti con antibiotici rappresentano un ripetuto fall-out nucleare. La teoria ci dice che tra le conseguenze di una tale devastazione del microbioma ci sono modificazioni del nostro metabolismo e del funzionamento del nostro sistema immunitario. Questa distorsione, che noi non comprendiamo, porta a un aumento dell’obesità. Gli esperimenti sui topi mostrano che, a due o tre mesi dal trattamento con antibiotici, il nostro microbioma è per lo più ristabilito, ma gli effetti dello sconvolgimento del microbioma nel nostro corpo permangono e i topi continuano a guadagnare peso.

Ribadendo che l’obesità ha tante cause, Spector rileva che siamo rimasti bloccati all’idea che quello che conta è il numero di calorie che introduciamo. Non consideriamo che rispetto al passato a essere totalmente cambiato è il “terreno” su cui il nostro metabolismo funziona. Spector porta ad esempio un giardino. Possiamo pensare che l’unica cosa che lo fa crescere bene sia il fertilizzante, e non consideriamo che usando massicce quantità di pesticidi o modificando il terreno in vari modo si altererà la capacità produttiva di quel giardino.

Occorre far passare il messaggio che quello che mangiamo fa la differenza dentro di noi, che influisce sul metabolismo e che attraverso il cibo che consumiamo possiamo modificare il metabolismo. Allora possiamo aiutare le persone a pensare di più al cibo che si mettono nello stomaco motivandole con un meccanismo preciso, come nell’esempio del giardino. Questo approccio potrebbe essere più efficace che continuare a contare le calorie e a colpevolizzare chi ingrassa. Il motivo del sovrappeso potrebbe risiedere nella disorganizzazione dei microbi e nel fatto che il loro assetto è totalmente diverso da quello dei nostri nonni. Di conseguenza, una volta compreso che esistono questi collegamenti tra microbi e cibo, possiamo iniziare a pensare di modificare la situazione e, nel caso, per esempio, degli antibiotici di assumerne meno.


Questo tema del microbioma, non deve creare confusione. Non si tratta di ancora un altro messaggio oltre a quello di consumare una dieta diversificata che includa verdura e frutta in abbondanza. Quello che si aggiunge è la spiegazione del perché è meglio consumare quel tipo di dieta, perché essa aumenta la diversità dei nostri microbi. Le persone malate, i diabetici e gli obesi hanno microbi meno diversificati in termini di capacità di esplicare funzioni, creare reti e esprimere vie metaboliche. Una situazione di questo tipo è in generale considerata negativa. Nei topi si è visto che alterando la dieta, offrendogli meno grassi e zuccheri e più fibre, si migliora la diversità del microbioma. La speranza è che tali modificazioni migliorino la salute nell’uomo.


Nicholas Finer non ha dubbi sull’importanza della nuova prospettiva aperta dagli studi sul microbioma. Rammenta come si è già dimostrato che modificando i batteri si modifica il metabolismo del colesterolo, e come esistano associazioni con le malattie delle arterie come l’aterosclerosi. Cita poi i lavori che collegano i batteri con l’infiammazione e la permeabilità dell’intestino. Tuttavia, sostiene che occorra continuare a pensare che cambiamenti ambientali, per esempio quanto mangiamo, la densità di energia del cibo che introduciamo, l’attività fisica, siano fattori importanti


La discussione poi tocca il tema della chirurgia bariatrica. Quest’operazione, sui cui risultati positivi i due professori concordano, ha tra i tanti effetti anche quello di modificare drammaticamente il microbioma intestinale. Lo studio di queste modificazioni potrebbe portare in futuro a pianificare interventi di alterazione del microbioma senza dover operare chirurgicamente per ottenere gli stessi risultati positivi.

In conclusione, nella confusione dei messaggi nutrizionali discordanti e contraddittori che hanno circolato negli ultimi 30 o 40 anni, Nicholas Finer e Tim Spector concordano che lo studio del microbioma intestinale e dei suoi rapporti con l’ambiente potrebbe portare alla comprensione del perché qualcuno risponde a una dieta bassa in grassi, altri a una dieta alta in fibre, altri ancora a una dieta bassa in carboidrati. Questo è il lavoro cui contribuirà per esempio il British Gut Project che invita le persone a iscriversi pagando 60 sterline per avere i propri microbi analizzati e scoprire come cambiamenti nella dieta influiscono sui microbi. Perché quello che sappiamo di sicuro è che i nostri microbi sono molto differenti e le nostre risposte a diete differenti sono altrettanto diverse. 



Podcast ascoltabile e scaricabile da: http://www.theguardian.com/science/audio/2014/oct/06/antibiotics-obesity-gut-microbes-disease-podcast
 

lunedì 20 gennaio 2014

Sangue fibre e … niente sapone: lo stile di vita che porta a un microbiota intestinale florido e robusto è quello dei cacciatori-raccoglitori della Tanzania?


Jeff Leach e altri ricercatori vogliono determinare le caratteristiche dei microbi intestinali degli Hadza, una delle ultime popolazioni di cacciatori-raccogliatori in Africa. La domanda da cui la ricerca è partita è se la dieta di questa popolazione che si procura il cibo esclusivamente con la caccia e la raccolta, e il microbiota intestinale che questa dieta determina, proteggono da alcune delle malattie croniche che affliggono noi abitanti del mondo industrializzato. Il nostro modo di mangiare, così diverso da quello dei cacciatori-raccoglitori, è responsabile della nostra suscettibilità a certe malattie?

Sarah Crespi di Science interroga il giornalista Jop de Vrieze che ha seguito il lavoro di campionamento e documentazione dell’antropologo Jeff Leach, uno dei fondatori dell’“American Gut Project” (http://humanfoodproject.com/) che ha lo scopo di mappare il microbioma (cioè il complesso dei geni dei microbi, ndt) intestinale di migliaia di statunitensi. Jeff visita gli insediamenti degli Hadza che vivono in Tanzania in piccoli gruppi formati da 10 fino a 50 persone, e raccoglie campioni di feci, campioni dalle mani, e campioni “ambientali", per esempio di cibo, animali, suolo e acqua. Inoltre acquisisce informazioni sulla dieta.

Vivere come cacciatori-raccoglitori significa non praticare agricoltura e non immagazzinare scorte alimentari. Che cosa mangiano gli Hadza? La stagione influenza fortemente la composizione della dieta. Durante la stagione secca, la frutta è scarsa ma la carne è abbondante poiché in questo periodo gli animali assetati sono più facili da catturare. Ci sono poi il miele e i tuberi che sono le donne a estrarre dal terreno e, occasionalmente, i frutti raccolti nella foresta. Nella stagione umida invece la carne è più scarsa e si consumano miele e frutti della foresta. L’aspetto più interessante della dieta degli Hadza, dal punto di vista microbiologico, emerge quando si annota che tra gli alimenti consumati in grande quantità c’è anche la polpa spugnosa e secca del frutto del baobab. Questo viene posto in acqua per ottenere un porridge estremamente ricco di fibre. I bambini ne mangiano moltissimo e hanno le pance gonfie non perché denutriti ma, sembra, come conseguenza della fermentazione delle fibre contenute negli alimenti che consumano. Le fibre presumibilmente, i dati ancora non ci sono, influenzano la composizione del microbiota e la loro abbondanza è uno degli aspetti più interessanti della dieta degli Hadza. Rispetto alla dieta media americana, per esempio, gli Hadza consumano oltre 100 grammi al giorno di fibre, quando la razione giornaliera raccomandata è di circa 30 grammi al giorno mentre uno statunitense medio ne mangia meno di 20 grammi al giorno.


 Un altro aspetto della microbiologia di questi gruppi riguarda il passaggio di microrganismi da un individuo all’altro (“the social network of microbes”): poiché non esistono misure igieniche paragonabili a quelle in uso da noi (per esempio doccia e uso di sapone) le persone continuamente si trasmettono microrganismi, e tuttavia non si ammalano, perciò Leach crede che debbano trarre un beneficio da queste interazioni.

Questo gruppo di cacciatori-raccoglitori conta 1000-1100 individui, di cui circa 200 si possono considerare cacciatori-raccoglitori puri, perché ottengono il 99,95 % delle calorie da attività di caccia e raccolta. Gli altri sono più occidentalizzati anche nella dieta e consumano per esempio alimenti a base di mais e bevande alcoliche. Questi non possono essere considerati cacciatori-raccoglitori ma sono comunque molto interessanti poiché hanno gli stessi geni e vivono nello stesso ambiente dei cacciatori-raccoglitori puri dai quali si differenziano per la dieta.

E’ naturale domandarsi se il microbiota intestinale dei cacciatori-raccoglitori Hadza sia simile a quello dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori. Essi, secondo de Vrieze, sono probabilmente la migliore approssimazione che abbiamo, considerando che vivono nello stesso luogo dei nostri primi progenitori e che hanno uno stile di vita simile, in particolare per quel che riguarda la dieta, poiché consumano molte fibre, mangiano carne secondo la disponibilità e, in generale, seguono la stagione. Questi aspetti sono comuni più o meno a tutti i cacciatori raccoglitori. Tuttavia, una volta che i progenitori lasciarono l’Africa per colonizzare il resto del mondo, la loro alimentazione e il loro comportamento si modificarono. Perciò, non si può parlare di un unico microbioma ancestrale.

Uno dei motivi che ha sollecitato questa ricerca è l’incidenza molto bassa tra gli Hadza di alcune malattie croniche molto comuni. Potrebbe esserci un legame tra questa bassa incidenza e i loro microbi intestinali, tenendo presente anche altri elementi del loro stato di salute e l’aspettativa di vita. I dati sulle patologie croniche come il cancro, le malattie cardiovascolari e altre malattie moderne sono scarsi e ci dicono che l’incidenza è molto bassa. Questa però può essere spiegata dalla bassa speranza di vita alla nascita, trentaquattro anni. In particolare, la mortalità tra i bambini è molto alta a causa della malaria e di altre cause non note. Poi ci sono gli incidenti e le ferite che si infettano, per esempio, in seguito al morso di una iena. Tenendo presente questo scenario complesso, ci sono aspetti della salute degli Hadza che possono essere messi in relazione con il microbiota intestinale, in particolare quelli riguardanti l’autoimmunità e alle allergie. La teoria dice che quando il microbiota intestinale è molto eterogeneo e bilanciato, la funzione di barriera svolta dall’intestino è particolarmente efficace e non c’è passaggio nell’organismo di quelle sostanze prodotte da batteri che possono provocare l’infiammazione cronica che è, a sua volta, responsabile di molte malattie. Il microbiota intestinale potrebbe svolgere un ruolo in questo senso. L’abbondanza di fibre nella dieta, inoltre, determina la produzione di acidi grassi a catena corta che sembra svolgano una funzione benefica di regolazione di vari processi nell’organismo. La maggiore quantità di molecole di questo tipo negli Hadza potrebbe spiegare la minore incidenza di certe malattie nella popolazione.

Riguardo alla diversificazione del microbiota negli Hadza, il loro stile di vita gli procura il contatto con una grande varietà di microbi. Per esempio durante le battute di caccia
e, in particolare, durante la macellazione, che avviene nel luogo dove l’animale è stato ucciso, i cacciatori consumano crudi alcuni organi, altre parti invece sono arrostite un po’ sul fuoco. Poi, con il contenuto fibroso dello stomaco gli uomini si sfregano le mani insanguinate. Tutte queste attività li espongono a moltissimi microbi, e Leach ha ovviamente raccolto campioni anche in questa situazione, tanto diversa microbiologicamente dalle condizioni e dai modi in cui noi manipoliamo, trasformiamo e consumiamo il nostro cibo.

Sui campioni ottenuti da Leach vari laboratori svolgeranno le analisi delle sequenze genomiche a scopo tassonomico e per identificare la funzione dei geni. I risultati saranno confrontati con i dati disponibili sul microbiota occidentale e “americano”, e con quelli del progetto “American Gut Population” che includono anche dati di persone che seguono diete estreme. Per studiare l’impatto di microbi specifici saranno svolti esperimenti utilizzando topi “germ free”, cioè cresciuti senza microbi. Inoltre, si cercherà di chiarire aspetti della comunicazione tra i microbi e il corpo [dell’ospite] studiando particolari molecole prodotte dai batteri e dall’essere umano.

Podcast ascoltabile e scaricabile da

http://www.sciencemag.org/content/343/6168/331.2.short